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Il negazionismo. Storia di una menzogna

AutoreClaudio Vercelli
Generesaggio
AreaAttività Scientifica
Casa editriceLaterza
Anno2013
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Il secolo scorso non ha prodotto soltanto le forme più radicali del male in campo politico sociale, come testimonia lo sterminio razziale (Shoah) di milioni di ebrei europei perpetrato dai nazisti e dai loro complici durante la Seconda guerra mondiale, ma paradossalmente ha prodotto anche forme di negazione di quello sterminio. Qualche decennio fa gli storici hanno incominciato a utilizzare il termine negazionismo per indicare un sistema, una pratica codificata condotta da pseudo storici e divulgatori di vario genere – che amavano, e amano, autodefinirsi revisionisti – tesa a negare che il governo della Germania nazista abbia mai progettato e portato quasi a compimento lo sterminio degli ebrei europei. Questi storici hanno preferito adottare il termine negazionismo (usato per la prima volta nel 1987 da Henry Rousso in un suo saggio) al posto dell’allora dominante e ambiguo “revisionismo” perché il primo indica più compiutamente il fatto che questo sistema di pensiero rientra in una dimensione ideologica che non può essere assimilata a un procedimento scientifico: la negazione dello sterminio ebraico si basa infatti su un metodo retorico di discorso in cui la premessa e la conclusione sono identici.
Con un’acuta analisi, Claudio Vercelli ricostruisce storicamente le radici politiche e culturali del negazionismo, ne descrive i principali personaggi e i teorici, espone il quadro mentale che dalla fine del secondo dopoguerra a oggi ne ha marcato lo sviluppo. Ne indaga, in particolare, l’abilità di evolversi in relazione a mutate situazioni politiche, economiche, geopolitiche e alle potenzialità diffusive offerte dal mondo del Web.
Dopo aver messo a fuoco con rigore scientifico che cosa si intende per «negazionismo olocaustico», l’autore inizia il percorso storico partendo da un interessante caso di revisionismo storiografico statunitense all’indomani della Prima guerra mondiale. Contro i sostenitori delle tesi condivise della storiografia scientifica che attribuivano alla Germania le maggiori responsabilità dello scoppio del conflitto, negli Stati Uniti erano sorte versioni revisioniste che le attribuivano a un inesistente complotto franco-russo. A tali ambienti revisionisti filotedeschi apparteneva uno dei primi autori che, dopo il 1945, hanno cercato di mettere in discussione la storiografia che andava sviluppandosi intorno allo sterminio ebraico. Fin dall’inizio, questo filone letterario spurio si è introdotto nel mondo storiografico non come ipotesi alternativa alla storiografia scientifica ma come negazione aprioristica, totale o parziale, di quanto andava confermando all'opposto la sterminata massa documentale, i racconti delle vittime superstiti e di numerosi carnefici.
Il saggio evidenzia che i negazionisti, con forme e risultati diversi, sotto la parvenza di una rielaborazione critica delle fonti che però svela ben presto un obiettivo apertamente ideologico teso a deformarne il significato ultimo, surrogandolo con una linea concettuale priva di presupposti fattuali, confutano che il governo nazista abbia mai progettato lo sterminio di tutti gli ebrei, che siano state utilizzate camere a gas per assassinare esseri umani e riducono il numero degli assassinati a proporzioni basse, attribuendo spesso la causa della loro morte a epidemie contratte nei campi o a eventi bellici. Le tematiche della loro struttura concettuale hanno come presupposto il rifiuto pregiudiziale dei risultati delle ricerche basate su prove documentarie fornite dalla storiografia scientifica sullo sterminio. Le loro pubblicazioni non si fondano né su un legittimo dubbio, né su una interpretazione dei testi che permetta di ristudiare un risultato storiografico fissato, ma su una perversa e maligna manipolazione delle fonti. La qualificazione è senza equivoci, negazionismo significa soppressione della verità ed è una componente, l’ultima, dello sterminio stesso, perché è una strategia mirata alla distruzione della verità e della memoria delle vittime; è la prosecuzione con altri mezzi della frenetica opera di occultamento delle prove materiali dei massacri messo in atto dagli assassini negli ultimi mesi della guerra, e anche la prosecuzione dell’opera di odio e criminalizzazione degli ebrei.
La ricerca prosegue prendendo in esame alcuni fra i più importanti filoni negazionisti: quello francese (la Francia già nei primi anni successivi alla sua liberazione era diventata l’epicentro del nascente negazionismo), quello americano (subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale negli stati Uniti era sorta una corrente negazionista fondata sull’antisemitismo e sulla teoria del complotto giudaico), poi quello italiano (nel nostro paese il negazionismo ha avuto un avvio più tardivo rispetto ad altri paesi perché il «neofascismo italiano credeva di non doversi togliere di dosso la pesante eredità di Auschwitz poiché non la rivendicava, con l’eccezione di alcune frange del tutto minoritarie e politicamente inconsistenti».), e infine lo straripante negazionismo dei paesi arabo-musulmani (l’antisemitismo, l’antisionismo, il conflitto arabo-israeliano e il rifiuto dello Stato d’Israele «hanno costituito il terreno più fertile nella maturazione di un atteggiamento di negazione, di volta in volta più strutturato e argomentato, fino a divenire, come nel caso dell’Iran di questi anni, un’ideologia di Stato»).
Per quanto concerne l’insieme di motivazioni, atteggiamenti, convincimenti del negazionismo dal dopoguerra a oggi l’autore fa una periodizzazione, non rigida, di quattro fasi: una prima fase (tra il 1945 e il 1965), contraddistinta da orientamenti neonazisti, tesi a nascondere i crimini del regime nazionalsocialista; una seconda fase (tra il 1965 e il 1978), caratterizzata da alcune influenze del negazionismo della destra radicale riviste però all’interno di un impianto teorico di derivazione marxista; un terzo momento (tra il 1978 e il 1990), in cui il negazionismo ha tentato di liberare «l’intero impianto critico da alcune delle sue più marcate premesse ideologiche, fondando i suoi giudizi di valore sull’analisi e la rilettura polemica delle fonti»; l’ultima fase, quella attuale, è scaturita dall’intreccio tra l’adozione del negazionismo da parte dell’islamismo radicale e la sua capacità di propagarsi sul web.
Affrontando la produzione dei negazionisti sul piano metodologico e contenutistico, l’autore scrive che va vista come un volontario e programmato attacco all’opera della storiografia scientifica, particolarmente quando nelle loro ricerche essi si impegnano con accanimento a negare una verità di fatto ampiamente condivisa; mentre sul piano politico e ideologico tale produzione è denunciata come il prolungamento, sotto mentite spoglie, di un discorso di convalida del nazismo attraverso il rifiuto degli aspetti più perversi e impresentabili della sua storia. E su questa linea i negazionisti non si limitano a cancellare  - come mai avvenuti o avvenuti in modo totalmente diverso -  fatti più che imbarazzanti, ma vogliono ricostruire il percorso storico di un’epoca dandole un significato nuovo e funzionale a interessi ideologici e politici contemporanei.
Dalla disamina  delle posizioni ideologico - politiche dei numerosi autori studiati dall’autore  si evince che i negazionisti di ogni epoca ambiscono a presentarsi come politicamente neutri, ovvero estranei a preoccupazione di collocazione ideologica, ma in realtà il fenomeno riguarda perlopiù autori identificabili con la destra radicale, di connotazione neofascista e neonazista (in alcuni casi si tratta di vecchi arnesi che erano attivi sotto il nazismo in ambienti politici o burocratici), più raramente con simpatizzanti o appartenenti a gruppi dell’estrema sinistra. Quasi sempre il collante ideologico dei negazionisti è di tipo “giudeo centrico”, e la passione antisemita è, in vari modi, quasi sempre presente. Sono sicuramente antisemiti quegli autori che definiscono lo sterminio un «mito», ovvero una deliberata mistificazione della storia a beneficio degli stessi ebrei, coalizzati in una vera e propria «internazionale giudaica» (o sionista), che manipolerebbero la memoria del passato per rinnovare e garantirsi un potere egemonico sul mondo intero.
L’autore scrive che l’utilizzo politico del negazionismo in tutte le sue declinazioni è incontestabile; poiché nel secondo dopoguerra il tradizionale antisemitismo era diventato politicamente insostenibile, l’espandersi di dibattiti pubblici che sostenevano l’inaccettabilità del sionismo e, di riflesso dello Stato d’Israele, recepiti entrambi come creazioni artificiali, ossia prodotti della cattiva coscienza dell’Europa postbellica, faceva «rientrare dalla porta quello che era stato buttato dalla finestra». In tal modo, appunto, la fusione tra sionismo, colonialismo e razzismo ha da allora consentito ai negazionisti di stabilire una sorta di filiazione dignitosa, accettabile, al rigetto non solo d’Israele ma anche degli ebrei.
Consiglio questo libro perché può aiutare il lettore a raggiungere un’autonoma consapevolezza del fenomeno negazionista; può infatti contribuire a rafforzare gli strumenti utili ad affrontare un tipo di discorso molto allettante e in via di espansione, basato principalmente sul sospetto generalizzato, un discorso che rende in parte vani tutti gli argomenti della storiografia scientifica di tipo classico. Inoltre può aiutare ad affrontare i problemi etici, giuridici e politici che sono sorti, e sorgono, a proposito della libertà di espressione (in alcuni paesi il negazionismo è perseguito e punito legalmente).
Claudio Vercelli è ricercatore di storia contemporanea presso l’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini di Torino, dove coordina il progetto didattico pluriennale “Usi della storia, usi della memoria”. È autore di numerosi saggi sulle deportazioni, su Israele e sul conflitto israelo-palestinese. È coautore del manuale di storia “Un mondo al plurale (a cura di Valerio Castronovo).
 
Maurizio Ghiretti