Recensioni
Dans la main droite de Dieu Psychanalyse du fanatisme
Autore | Gérard Haddad |
Genere | saggio |
Area | Attività Scientifica |
Casa editrice | Premier Parallèle |
Anno | 2015 |
Il senso comune europeo, che dopo il ritorno massiccio dell’integralismo islamico si interroga variamente sulle cause di questa violenza, vede nel fenomeno religioso, e monoteistico in particolare, una causa se non prima certamente essenziale dell’intolleranza. Padre putativo di tale prospettiva sarebbe niente meno che Freud per il quale “con la fede in un Dio unico nacque inevitabilmente l’intolleranza religiosa”. G. Haddad, psicoanalista e già paziente di Lacan, cerca di rispondere a Freud tracciando le costanti psichiche che contraddistinguerebbero il profilo del fanatico. Vi sono due tesi, una di carattere filosofico l’altra psicoanalitica, che sorreggono il saggio. “La vérité” scrive Haddad delineando la tesi filosofica, “est nécessairement une” ma“nul ne la possède ni ne peut la posséder”. L’affermazione, che si rifà all’immagine di Lessing ove il letterato si figurava che se Dio gli avesse proposto nella mano sinistra la ricerca della verità e in quella destra il suo possesso egli avrebbe, con gusto socratico, di certo scelto la prima, scarta ogni relativismo di maniera, ponendo l’accento sul carattere approssimativo delle conoscenze umane rispetto a una verità kantianamente intesa come punto di fuga ideale. L’impossibilità di tenere in mano la piena verità trova il proprio corrispettivo nell’esperienza di ciascuno di noi. E’ la vita in quanto tale, nel suo carattere finito, a metterci di fronte all’evidenza della nostra non onnipotenza. Se il limite della propria conoscenza costituisce la condizione per l’infinito perpetuarsi del dialogo socratico, la morte restituisce la vita al suo limite e la definisce in quanto tale. Ma – ed è da qui che si innesta il meccanismo psichico che conduce al fanatismo – il limite che costituisce il perno dell’esistenza può esser vissuto come insostenibile peso, minaccia alla propria identità. Il rifiuto di questo limite si esprime, ritornando all’immagine di Lessing, nella volontà di possedere la verità scorgendo nella mano sinistra, nella ricerca della verità, l’indelebile segno del limite inteso come menomazione della propria virilità. La mano destra è l’idolo, la verità condensatasi in immagine ma anche in concetto o persona. A fare problema non è l’immagine dell’idolo, o un dato concetto, come si vorrebbe – con “faiblesse de la pensée” – asserire, accusando la religione in quanto tale di essere portatrice dell’estremismo. A fare problema è l’atteggiamento idolatrico che può declinarsi in rapporto a differenti termini, come la storia del socialismo realizzato ha reso evidente. Questa critica, lungi dall’essere rinunciataria, fa appello piuttosto a un “combat permanent” da rinnovare in rapporto a ogni forma con la quale l’uomo media la propria relazione con il reale: così si combatterà il nazionalismo e il razzismo che crescono in seno al naturale attaccamento alla propria cultura; il fanatismo che sorge a seguito di una legittima adesione a un credo religioso o ideologico. Minimo comun denominatore tra questi differenti estremismi è il “millénarisme”, la credenza nell’imminenza di un evento che renda possibile l’accesso alla “pureté du message originaire”. Il millenarismo, diremo giungendo alla tesi psicoanalitica di Haddad, realizzerebbe il mito narcisista di una piena ricongiunzione di sé con sé medesimi, di un rispecchiamento totale che, solo, sembrerebbe poter guarire la ferita narcisistica. Ferita costituita dall’incapacità di accettare il limite, latamente il difetto, e più specificatamente la non onnipotenza, come parte integrante della propria identità. Se vi è millenarismo, dunque, è perché vi è ferita narcisistica. In tal senso la pienezza ambita dal millenarismo altro non è che il ricongiungimento incestuoso con la propria origine, con la figura materna. L’individuo che vive nell’attesa millenarista è colui che ha percepito il distacco dall’origine, la costruzione del sé mediante la rottura del rapporto osmotico con la madre, come rovina, perdita. Aspetti che riguardano ciascuno di noi ma che subiscono un drastico mutamento qualitativo nel momento in cui nella sopra richiamata costruzione del sé non si abbia ricevuto quella struttura simbolica, rappresentata dalla figura paterna, che abbia permesso di vivere il limite, la castrazione posta al desiderio incestuoso, non già come giogo di una legge antitetica alla vita, bensì come opportunità di riconoscere il carattere aporetico del reale. L’assenza della mediazione della legge, la conseguente percezione della ferita e il desiderio di sanarla mediante l’unione incestuosa con l’origine, si declina in due modalità differenti, ricostruibili a partire dalla relazione nei confronti del “fratello”, ovvero con la figura che reca in volto, nella sua “beauté” e “intelligence” (il riferimento è alla gelosia provata dai fratelli di Giuseppe) il ricordo di ciò che a sé farebbe difetto. Per colui che è soggetto a una ferita narcisistica il ricongiungimento all’origine può passare o dalla sussunzione a sé del “fratello”, la cui differenza verrà così meno, o dall’illusione solipsistica che tale “fratello” non vi sia e che il cammino verso l’osmosi con la madre sia lineare e diretto. Il primo caso è rappresentato dal fanatismo delle ideologie e dei monoteismi universalistici (comunismo, cristianesimo, islam) che intendono la liberazione come sinonimica di conversione, il secondo dal fanatismo del millenarismo nazionalista all’interno del quale Haddad, allievo di Leibowitz, non esita ad accostare la Heimat tedesca con la retorica della destra sionista. Concentrandosi ora sul primo caso bisognerà notare come Haddad individui nell’aggiunta dell’aggettivo “universalista” al sostantivo “monoteismo” una variante decisiva per rispondere all’accusa di Freud. L’universalismo non sarebbe nato dal monoteismo ebraico bensì dalla matrice imperiale di Roma che, sotto le spoglie del sincretismo, nasconde la volontà di tutto a sé assimilare. Sarebbe il cristianesimo divenuto romano ad aver coniugato monoteismo e universalismo, e vicende analoghe avrebbero segnato il monoteismo mussulmano nato all’insegna della rispettiva conquista imperiale. Il monoteismo ebraico rappresenterebbe viceversa, in virtù del suo rivendicato particolare, quel limite contro il quale ogni universalismo si scontra. Lungi dal presentarsi come istanza del possesso universalistico il monoteismo ebraico rappresenterebbe un’istanza in grado di intercettare il carattere aporetico dell’esperienza umana. E’ questo il significato saliente che Haddad riscontra nel tetragramma e nella lettura positiva che il midrash dà del racconto di Babele, dove il primo presenta, sulla scorta di Maimonide, una funzione di rinvio e la seconda simboleggia la necessità del moltiplicarsi linguistico, del riprodursi della differenza. Viceversa l’universalismo, monoteista o ideologico che sia, si ripromette una nuova costruzione babelica, che curi la ferita narcisistica – la privazione del sé rappresentata nel racconto biblico nella dispersione dopo il diluvio e che si traduce psicoanaliticamente nella percezione del “corps morcelé” – mediante nuova concentrazione totalizzante. Non si pensi a un’esaltazione tout court dell’ebraismo. Anzitutto perché questa lettura dell’ebraismo, per quanto abbia i propri riferimenti nelle fonti, è data dall’impostazione maimonidea che si rifà alla cultura arabo-islamica e alla filosofia greca. In secondo luogo perché Haddad sostiene che l’accordo del monoteismo ebraico con il carattere aporetico del reale, viene meno qualora si sposi un approccio messianico-millenarista, anticamera del fanatismo nazionalista, che Leibowitz per primo riconobbe come estraneo alla forma mentis talmudica, e che altro non farebbe che reificare quella tendenza anti nomica che fu propria del messianesimo di Zevi. Così il particolare, di per sé impermeabile alla violenza dell’universalismo, ritrova nel millenarismo la dinamica psichica della ferita narcisistica. Se quest’ultima si declina nel mondo arabo-mussulmano, dopo la perdita dell’Andalusia e della Palestina storica, nel fantasma di una ricostruzione della Umma, ritorno alla plenitude dell’infanzia dorata, in ambito ebraico il nazionalismo millenarista si presenta come incapacità di mediare il sé – concretamente, di cedere pezzi di terra. Se dunque Haddad individua nel particolare ebraico un riferimento antitetico al fanatismo è evidente che tale riferimento è di tipo indicativo: l’ebraismo indicherebbe nel valore della mediazione la contromossa al millenarismo e nella distruzione della torre di Babele, simbolo fallico dell’Universale, la terapia alla “passion du même” propria dell’“humanité (…) ivre de cette aspiration à l’Universel”. Non a caso, infatti, la violenza del fanatismo islamico si scatena anzitutto contro quei mussulmani non considerati sufficientemente ‘simili’. La strada per poter costruire il sé attraverso il rapporto al ‘fratello’, senza soccombere alla gelosia data dalle proprie ferite, passa per la mediazione delle ‘strutture simboliche’ paterne. Lacanianamente, Haddad riscontra con timore il venir meno di questa figura, o di un suo analogon, nella società occidentale. Ne segue l’impegno a porre le basi per nuove figure di mediazione, al di là di opzioni militari che Haddad non scarta. Che tale prospettiva passi per una riqualificazione del particolare ebraico, oggi nuovamente svilito mediante l’equiparazione di sionismo con razzismo, spiega in parte il successo del testo di Haddad nella comunità ebraica d’oltralpe. Sarà forse la capacità da parte ebraica di fare i conti con il proprio fanatismo (millenarismo nazionalista) a rendere possibile a Israel di apportare il proprio contributo al “combat permanent” contro l’incubo di un nuovo progetto totalitario. Egualmente sarà riconoscendo il ruolo del particolare, ebraico o di altro tipo, che l’Occidente potrà rimettere mano alle sue figure di mediazione senza cedere alle sirene di chi scambia il limite per la repressione. Temi complessi che solo chi ha vissuto in prima persona è in grado di restituire con la chiarezza che contraddistingue Dans la main droite de Dieu, di cui non resta che augurarsi un’edizione italiana.
Cosimo Nicolini Coen
|